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Parlare di etnomusicologia significa anche ricordare il musicista ungherese Bela Bartók (1881-1945), le cui ;prime indagini etnomusicologiche, condotte insieme al collega Zoltán Kodály con tale rigore metodologico da inaugurare di fatto una nuova disciplina, risalgono al periodo tra il 1905 ed il 1906.

A chi lo criticava per la fatica e il tempo che tali ricerche rubavano al Bartók compositore e musicista, egli quasi d'impulso scriveva: “...posso dire che il tempo impiegato in questo genere di lavoro è il più bello della mia vita e non lo cambierei con nessun'altra cosa al mondo." 

Un impulso che scaturì in lui anche dalla voglia di sviluppare un'autentica "musica ungherese colta", autonoma rispetto alla ben più nota scuola tedesca. In questo modo dalla registrazione in loco di materiale musicale originale egli arrivò, già nel 1906, alla composizione delle sue "Venti canzoni popolari ungheresi"

Un'opera nella quale Bartòk sceglie di armonizzare melodie preesistenti, paragonando il suo lavoro quello eseguito anche da J.S. Bach per la composizione dei suoi Corali. Un paragone con il quale egli peraltro rispondeva alle critiche di chi considerava l’armonizzazione di materiale dato come semplice esercizio scolastico.

Egli scriveva: "... lo studio di questa musica contadina mi ha rivelato la possibilità di una completa emancipazione dal sistema tonale maggiore-minore. Infatti la parte più valida di queste melodie sta nell’impiego di antichi modi greci ed ecclesiastici, in alcune scale pentatoniche primitive e nella varietà e nella libertà dei ritmi. È evidente che i modi antichi, non più in uso nella nostra musica, posseggono ancora una loro vitalità." 

Il canto popolare era dunque per lui un “fatto di natura”, contenente “tesori spirituali quasi inaccessibili all’uomo civilizzato”. La si poteva trovare solo nei villaggi più isolati, dove l'istinto degli uomini e la vita del villaggio (nascite, matrimoni, feste, funerali...) avevano creato melodie semplici, profonde e prive di scorie.

Per Bartók la semplicità (o purezza) della musica di villaggi isolati nulla ha da spartire con la semplicità (o banalità) di quella che viene erroneamente detta "musica popolare", che egli definiva invece come "musica popolaresca", con le melodie nello stile popolare di un luogo, ma "corrotte" da armonie occidentali.

Attraverso i suoi studi Bartók apprese così una nuova "lingua madre", perfettamente rintracciabile nelle sue composizioni, nelle sue melodie che, pur trattate con un linguaggio moderno, politonale, lontano dall'originale, hanno magicamente conservato il loro profondo spirito popolare.

Se si ascolta una Danza Ungherese di Brahms, una Polonnaise di Liszt, una Marcia Russa di Ciaikovsky si nota che, a parte un superficiale tono popolaresco, quei brani hanno una vitalità propria, che ricalca piuttosto la personalità dei loro compositori.

Bartók ha invece saputo coniugare la tradizione colta con quella popolare, rendersi Interprete di un nuovo classicismo razionale che vede nel musicista un individuo socialmente impegnato, che esprime in modo sincero i propri sentimenti e ideali.

Resta comunque fondamentale che, abbattendo i pregiudizi razzisti legati al concetto di “etnia”, egli ha esaltato una scienza, l’etnomusicologia, tesa a esplorare e comprendere le connessioni esistenti tra le diverse tradizioni popolari e le loro rispettive musiche.